Marx in Paris – Imagining the Paris Commune as a lived experience

„Marx in Paris“ by Michael Löwi and Olivier Besancenot, translated by Todd Chretien, original title „Marx à Paris, 1871, Le Cahier bleu de Jenny“

As the authors state in the postface, this story evidently belongs to the realm of fiction: there is no historical evidence that Marx ever visited Paris during the Commune even though he definitely had connections to the French capital in the period of the insurrection. However, it is fascinating how this small book plays with the possibilities that are within the historical evidence: we have no sources that attest Marx’s presence in Paris, but there is also no evidence that denies it. So, Löwy and Besancenot’s work focuses on the possibilities that can be found in the spaces left blank within the books of history, a practise common in many historical novels that feature protagonists that really existed. It imagines how a recently found notebook written by Marx’s daughter Jenny could cast a new light on the history of the Paris Commune as it narrates the secret trip, she and her father undertook to revolutionary Paris in 1871.

The focus surely is to a significant extent on some of the protagonists of the Commune. However, unlike in a history book, in this work of fiction they really come to life. Their convictions get exposed through meaningful but yet natural discussions among friends. The communards thus come across as tangible men and women. More even than the conversation with people such as Léo Frankel, Louise Michel, Eugène Varlin or Elisabeth Dmitrieff I enjoyed the parts where father and daughter Marx encounter common people, the masses of the unknown that form the majority of the Commune. In particular, I was fascinated by the workers from the carpentry cooperative who learn how to self-organize themselves and learn new skills along the way.

In general, I really enjoyed how this book tries to narrate the Commune as a lived experience, as something happening in the present, not overshadowed by its repression, even though there are hints about it in the footnotes that appear from time to time. And while it focuses on the protagonists, it leaves room also for the unknown of the Commune, gives them a voice too to express their reality and their viewpoints. The only thing I regret is that this book is this short, because I would love to continue this time travelling experience and immerse in 1871 Paris even more, for exploring how it may have been to live the Commune is what drives me to read so many things about this period.

Addio Valascia

Che cosa significa la Valascia per me?

È una parte integrale della mia identità. Non esagero se dico che il primo incontro con lei ha influenzato il corso della mia vita. Infatti, il mio primo ricordo è dell’ormai lontano autunno 2004, quando durante le mie prime vacanze in Ticino abbiamo attraversato la Leventina. Dall’autostrada ho visto la facciata della Valascia dipinta in biancoblù con il simbolo dell’HCAP e la scritta FORZA AMBRÌ. Da quando ho poi definitivamente scoperto ed affermato la mia passione per l’Ambrì nell’inverno successivo, ho sempre fatto riferimento a questo momento come esperienza fondativa per la mia identità di tifosa.

Per molto tempo la Valascia per me è stata però solo un luogo di sogni e di desideri, di incontri rari e perciò più preziosi. In breve, la Valascia era un luogo di peregrinaggio una volta l’anno mentre le esperienze quotidiane da tifosa biancoblù le ho fatte a casa mia, nell’Ilfishalle di Langnau.

Mi ricordo ancora bene come nel 2007, nelle prime vacanze in Leventina, ho infine potuto ammirare la Valascia da vicino. Oltre alla facciata biancoblù che ha un posto particolare nel mio cuore mi ricordo ancora come ero fascinata dagli stemmi dei comuni leventinesi appesi all’interno dello stadio, stemmi che avevo studiato per il progetto di scuola che avevo fatto sulla Leventina nello stesso anno. La passione per la Leventina è un altro frutto di questo amore per l’Ambrì che posso vivere soltanto perché quel giorno nel 2004 la Valascia ha esercitato un fascino incancellabile.

Negli anni successivi non è passato nessun anno in cui non mi sono fermata davanti alla Valascia. Nel 2009 infine l’ho vissuta infine anche dall’interno, durante la mia prima presentazione della squadra. Poi negli anni 2010-2012 ho potuto vivere finalmente l’atmosfera in Curva Sud durante quattro partite. Cantare la Montanara in Curva Sud è stato molto emozionante, un sogno diventato realtà.

Nel corso degli anni tante cose sono cambiate. In molti sensi la mia vita si è trasformata. Anche se non sono più stata ad una partita di hockey dal 2015 in poi, non posso essere indifferente alla sorte di quella squadra leventinese per cui ho perso il cuore nel ormai lontano gennaio 2006 quando ho infine preso coscienza di quello che era già un amore a prima vista nel 2004. E la Leventina rappresenta tuttora un santuario, un posto quasi spirituale dove provo un forte senso di appartenenza.

Sono stata stravolta dalla notizia che la mia Valascia sarà demolita. Prima non ci volevo credere. Semplicemente non era possibile. Il mio cervello semplicemente ha rifiutato l’idea che il luogo dove tanti di noi hanno fatto esperienze fondamentali possa essere demolito, distrutto, cancellato, come se niente fosse. Ero sempre convinta che la Valascia possa essere conservata in una maniera o l’altra. E invece no. E l’idea del vuoto che questa demolizione tralascerà mi riempisce di un forte disagio. Si tratta di un vuoto sia fisico che mentale. Si tratta di molto di più di una semplice sparizione di un edificio dalla mappa di un villaggio. Si tratta di una sparizione di un luogo di memoria per me così come per tanti altri e nel caso mio anche di un costituente della mia identità in un certo senso. Certo, c’è il nuovo stadio, che per tanti di noi significa nuove memorie, ma non necessariamente per me, dato che non vivo più per l’hockey come lo facevo dieci anni fa.

Proprio per questo era fondamentale per me vedere la Valascia un’ultima volta e salutarla dignitosamente. Temevo già di non riuscirci più. E invece ce l’ho fatta verso la metà di maggio di quest’anno. È stato un percorso molto emozionante, un ritorno alle mie radici. Ma è stato anche doloroso dire addio, partire e sapere di non rivederla più.

Comunque, l’importante restano i momenti gioiosi e belli che ho vissuto lì e che non dimenticherò mai. Nella mia memoria la Valascia resterà per sempre il simbolo di quella squadra di due piccoli villaggi di montagna che riesce a competere con i grandi dell’hockey svizzero e il simbolo dell’origine di una passione che ha riempito una parte significativa della mia infanzia e adolescenza e di cui il fuoco non si è mai completamente spento.

11.-15.6.22